3. Sapevo dove andare e il consiglio di Cella non era sbagliato. Comunque,
fare da bersaglio alla bestia che aveva aggredito Carmen non mi attirava
affatto; pensavo ormai che si trattasse di Black Devil, e non intendevo restare
ad aspettarlo.
Sotto un mattone del muretto semi-diroccato davanti alla casa, trovai la
chiave; era, il muretto, quel che restava della casa di un giardiniere bruciata
mezzo secolo prima insieme al suo occupante che si sospettava avesse una
relazione con la padrona di casa. Ero sceso dalla corriera diretta a Rieti,
sulla via Salaria, con uno zaino sulle spalle per percorrere un chilometro
della strada privata che si inoltrava tra gli abeti.
La villa dei parenti di Patrizia era vuota da qualche mese, ormai. La mia
ex non si curava molto di quella vecchia proprietà sperduta nella campagna tra
Roma e Rieti.
Del resto, non c’era nulla di prezioso da asportare. Il mobilio, quasi
marcito, era un pessimo ‘800 inglese, la polvere imperava ovunque e i circa
trecento metri quadri della costruzione, divisi in due piani e la soffitta,
erano in pessime condizioni. Unici ambienti vivibili: la cucina, al pian
terreno, e un paio di camere, al primo piano.
Quando arrivai, nel tardo pomeriggio, il vento faceva gemere sinistramente
le tegole del tetto, e scricchiolare gli infissi di legno pesante.
La corrente elettrica era stata lasciata per non far marcire qualche
provvista nel frigo e permettere alla donna del vicino paesetto di pulire
quegli ambienti almeno una volta alla settimana.
Tolsi una ragnatela proprio davanti alla porta e me la chiusi alle spalle.
Era di legno pesante e aveva tre catenacci che strinsi attentamente.
Prima di partire, prendendo una corriera che percorreva la tratta
Roma-Rieti, mi ero assicurato delle condizioni di Carmen, ancora sotto shock e
sotto sedativi. I medici erano più preoccupati delle conseguenze psicologiche
che di quelle fisiche e le bruciature sulla pianta dei piedi erano state per
fortuna molto lievi. Il sadico che l’aveva conciata così si eccitava tramite la
tortura e rabbrividivo se pensavo a cosa avrebbe potuto fare anche alla giovane
Sonia.
Trovai la cucina al pian terreno meno spettrale delle due stanze di sopra e
il tepore dei fornelli a gas, dove mi ero preparato un po’ di pane in cassetta
abbrustolito cosparso dalle conserve trovate in dispensa, mi confortava non
poco. Trovai barattoli di ortaggi vari sottolio, formaggi ben stagionati e
frutta secca.
Un ottimo vino senza etichetta mi aiutò a rilassarmi sul vecchio divano che
avevo trascinato dal soggiorno sui pavimenti di cotto che erano ancora in
discrete condizioni e verso mezzanotte mi riuscì di prendere sonno. Sentivo
solo il verso di animali notturni e il frusciare delle foglie degli arbusti a
margine del bosco, mosse da un vento leggero.
Ero da solo e spesso la solitudine si cerca avidamente. Nel mio caso,
poteva diventare una forma di protezione. Persino il campo del cellulare era
intermittente forse per colpa del maltempo.
Non sapevo quanto sarei rimasto lì ma avevo ottenuto da Cella la garanzia
di una certa protezione appena rientrato in città. Dovevo pur riprendere a
lavorare.
Posai i Tarocchi sullo schienale del divano, a guardia dei miei sogni, e
della mia tranquillità.
Il vento aveva iniziato a fischiare più forte e s’inoltrava tra gli infissi
insicuri ma il giaccone pesante che mi ero portato costituiva una protezione
sufficiente e, lasciata la luce della cappa aspirante sulla cucina
accesa, chiusi gli occhi.
Una serie impressionante di scricchiolii mi scuoteva mentre fissavo,
davanti a me, monti lontani. Pensai che forse si stava preparando una tempesta:
cosa mai poteva generare quei rumori? Poi mi svegliai, istintivamente avevo
interrotto il sogno: sulla mia testa, un concerto di sinistri scricchiolii mi
faceva pensare a passi cadenzati.
Salendo le scale lentamente, per non far troppo rumore, e facendo luce con
la torcia del cellulare, arrivai alla soffitta. La porta non era chiusa, la
spalancai e cercai di dare uno sguardo all’ampio locale, dopo aver cercato,
inutilmente l’interruttore. Vedevo un’indescrivibile confusione: mobili
rovinati, cuscini scuciti, un divano sfondato, ceste di varie dimensioni,
qualche valigia e un paio di bauli. Potevano esser stati i topi a far gemere le
assi del pavimento in quel modo?
Chiusi la porta, per tornare sui miei passi. Arrivato ai piedi della scala,
sentii nuovamente muoversi dei passi in soffitta. La persona che si era
nascosta nel vasto ambiente, poteva essere un vagabondo, forse un clandestino
in cerca di un tetto o chiunque altro. Non sapevo se affrontarlo o barricarmi
in un’altra stanza.
Andai verso il camino per prendere un pesante attizzatoio metallico che
potevo brandire come un’arma e tornai in cucina. Chiusi a chiave la porta di
legno spesso e piazzai una sedia contro la maniglia. Per forzarla ci sarebbe
voluto un uomo robusto e deciso.
Avevo appena finito quando sentii uno schianto contro la porta, come se un
mobile pesante fosse stato scagliato contro il legno. A causa del violento
urto, la sedia s’incastrò ancora più saldamente contro il pavimento.
Calci contro il legno della porta, uno, due, violentemente, ma ero pronto.
Chiunque fosse entrato si sarebbe beccato l’attizzatoio in fronte.
Quella serie di colpi durò per cinque minuti. Ebbi l’impressione che la
persona che li scagliava lo facesse per spaventarmi.
Provai l’impulso di togliere la sedia e affrontarlo. Chi poteva essere per aggredirmi in quel modo?
estratto dal romanzo giallo IL XVIII° Arcano
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