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lunedì 26 dicembre 2022

Essere Morti - 2

 

- Qualche domanda, dottor Hackey?

- Direttore, preferirei tentare un approccio più morbido, almeno all’inizio. Se non potremo strappargli il consenso per l’ipnosi da subito, magari si può tentare di convincerlo con il tempo.

- Abbiamo tempo? – chiese, polemicamente, la dottoressa Pimby – Il giudice aspetta la nostra diagnosi senza contare che i ragazzi potrebbero essere ancora vivi, prigionieri in qualche luogo oppure affidati a un complice.

Cliveberry sorrise, pensieroso – In effetti, non posso concedervi più di ventiquattr’ore. Lavorerete insieme a questo caso – disse, rivolgendosi ai due medici più giovani – E mi porterete entro la giornata di domani le risposte che voglio. In caso contrario, procederemo come da protocollo.

James, steso sulla brandina della sua cella, fissava la luna dalla finestra rettangolare protetta da sbarre e da una rete metallica per impedire che qualsiasi animale oppure un oggetto potessero entrare o uscire da quel luogo.

Era ormai mezzanotte e stava pensando quanto fosse strana la sua situazione. Non era mai stato particolarmente religioso ma era naturale che ragionasse sull’essere finito in una sorta di purgatorio. Non avrebbe mai immaginato, dopo aver constatato la propria morte, di potersi trovare costretto in quel modo.

Istintivamente aveva sempre considerato, da vivo, l’Aldilà, alla stregua di una promessa di liberazione dagli affanni della vita terrena.

 Una volta esaminata la scena, quasi immobile nel tempo, dove vedeva il suo corpo maciullato all’interno dell’automobile schiacciata da quel grande albero, e non provava nemmeno il minimo fastidio o dolore, una strana allegria si era impossessata di lui.

Il vecchio mondo ancora macinava i suoi riti, davanti ai suoi occhi, ma le persone stavano diminuendo a vista d’occhio, per le strade, nei negozi, all’interno delle abitazioni.

Pian piano si accorse che quelli che poteva incontrare erano deceduti da anni, forse da secoli. Persone che si muovevano e si comportavano come fossero ancora vive, intente nelle normali occupazioni quotidiane.

Pensò comunque di tornare, a piedi, presso la propria abitazione, una bassa villetta in periferia. Il silenzio quasi assoluto copriva come una vecchia coperta di lana l’intero isolato.

Entrando in casa, notò subito che ogni apparecchio elettrico non funzionava. Radio, televisione, frigorifero, climatizzatore e tanto meno l’illuminazione elettrica. Anche il cellulare che ancora teneva in tasca era spento e senza possibilità di accendersi.

Quel nuovo mondo, era dunque senza corrente elettrica. Non gli balenò in mente neppure per un istante che potesse essersi verificato un black-out in tutta la zona e che magari il suo cellulare si fosse danneggiato nell’incidente stradale che lo aveva ucciso.

Non ragionava minimamente sul fatto che si poteva trovare in un mondo alternativo a quello che aveva conosciuto e abitato solo da defunti, oppure, era finito nel suo vecchio mondo, visto con gli occhi di un morto.

Si era seduto sul divano, che la sua mogliettina, molto prima di fuggire, aveva insistito tanto per rivestire con un’orribile copriletto a fiori sgargianti.

Nella vita di prima, tra poco sarebbero rientrati i figlioletti dalla scuola ma ovviamente nessuno si presentò alla porta per ore. Si accorse di non avere fame ma soltanto una vaga sete, e per sua fortuna, l’acqua scorreva ancora dal rubinetto anche se a tratti e con una pressione molto ridotta. 

Verso sera, si meravigliò non poco dell’assoluta mancanza di rumori o suoni dalla strada. Il pub all’angolo era chiuso e silenzioso. E così pure i negozi del viale principale e il ristorante di Betty. 

All’improvviso, però, si accorse che dalla finestra del soggiorno proveniva la luce di tutti i locali della zona, che si proiettava all’interno dell’abitazione con spettacolari riflessi multicolori.

Uscì di casa per andare proprio da Betty, dove aveva passato molte sere a cercare di spiegarsi per quale diavolo di motivo la sua donna lo aveva lasciato, tra una bottiglia e l’altra.

Il ristorante era aperto e normalmente funzionante. Non c’era molta gente seduta ai tavoli di legno, e le due cameriere che aiutavano Betty di norma, non si vedevano.

Betty, la sessantenne proprietaria del locale, vedova da una vita, lo accolse con entusiasmo:

- James! Bentornato! Lo sai cosa dicevano?

L’uomo si sedette sullo sgabello, al bancone, e chiese il solito. Che equivaleva a frittelle, uova sode e birra. Avrebbe voluto chiedere alla donna come mai la corrente elettrica, in quel luogo, c’era come prima… prima del disastro. Betty smise si sorridere.

- Il magazzino sotterraneo è vuoto. E i rifornimenti che aspettavo, non sono venuti. Stamattina il furgone di Henry non si è proprio visto. Siamo a secco, James, a parte acqua fresca. Quella, quanta ne vuoi. Magari con ghiaccio?

- Te l’ho chiesto più che altro per abitudine. Non ho fame. Ma dimmi: cosa dicevano di me?

Betty smise di sorridere – Malelingue. Gente che vive di bugie per farsi bella. Dicevano che eri morto in un incidente, durante il temporale di ieri. Dicevano che si stava avvicinando un terribile uragano ed eravamo in pericolo tutti. Ma vedi da te che il tempo è migliorato.

James le aveva sorriso, compiacente. Aveva sempre provato una forte simpatia per quella donna.

- Betty, il tempo è migliorato perché non è più il nostro tempo. Noi siamo morti.

James restò a fissare la luna, steso sulla brandina, finché il sonno non lo costrinse a chiudere gli occhi. Aveva imparato che anche da morti si dorme e si sogna. Purtroppo, anche da morti, la gente, troppa gente non se ne accorge e continua con le vecchie tiritere. Le abitudini sono le ultime a morire.

Dopo quella sera nel ristorante di Betty, alcuni individui con strane divise erano venuti a cercarlo a casa per fargli domande su domande, con insistenza, con cattiveria in alcuni momenti.

Alle sue spiegazioni, a ciò che diceva in buona fede, insistevano con le loro dichiarazioni e volevano, soprattutto, sapere dove erano finiti i suoi figli.

Grazie al Cielo, spiegava James, dovevano essere ancora vivi. L’uragano aveva certamente risparmiato la scuola, costruita secondo i protocolli di massima sicurezza.

Dopo qualche giorno, si erano presentati per interrogarlo due poliziotti. Uno di loro somigliava incredibilmente al nipote di Betty. Evidentemente, un’altra vittima dell’uragano.

I poliziotti lo costrinsero a sottoporsi a visite, controlli, e ogni genere di altri interrogatori.

James comprese che la maggioranza di quei morti non voleva accettare assolutamente quel che per lui era così evidente e palese. Erano convinti di essere ancora vivi e si comportavano come avrebbero fatto nel vecchio mondo.

Più esattamente, quel mondo che vedeva intorno a lui era edificato dalla memoria collettiva di tutti quei defunti e imposto a chiunque fosse inserito nella comunità.

Pertanto, James era certo che se la maggioranza avesse accettato l’idea della propria morte, anche la percezione del mondo esterno sarebbe istantaneamente cambiata per tutti.

Non si trovava bene panni del profeta o dell’oracolo. Era sempre stato un uomo semplice e vigoroso, forse un po’ credulone ma onesto. Come fare a convincerli che non dovevano comportarsi in maniera così irragionevole?

Fu questo l’ultimo pensiero prima di dormire e sognare. Sognare la vecchia esistenza, le persone che non poteva più incontrare e il sorriso di sua moglie. Svanito, come la vita di prima, per sempre.

Alla notte segue l’alba, di regola, ma in quel mondo, alla notte può seguire un’altra notte. Infatti, James si destò nel silenzio più assoluto, alla luce di quella luna diventata quasi gigante, immanente, troppo presente in quella piccola cella.

Si alzò a sedere sul letto quasi ubbidendo a un comando silenzioso, poi mise i piedi per terra e si accorse di essere su una nuvola.

Il pavimento era una nuvola che ondeggiava leggermente, senza spostarlo, quasi che volesse scorrere sotto i suoi piedi nudi.

Provò ad alzarsi ma non ci riuscì e qualcosa in lui gli disse che se voleva muoversi doveva formulare pensieri e non cercare di spostare le gambe. Decise allora di attraversare la porta chiusa a chiave e, quasi immediatamente, si ritrovò dall’altra parte. L’aveva attraversata senza nemmeno accorgersene.

Pensò di essere un fantasma nel vecchio mondo, e quindi per questo motivo poteva attraversare porte e pareti. Non si rendeva conto, tuttavia, di come e perché non riuscisse a vedere tutti quelli che conosceva ma solo quanti avevano perso la vita terrena. Anche la sua amica Betty doveva essere perita e glielo aveva detto senza tanti complimenti, beccandosi una grassa risata per risposta.

Pensò di andare a trovarla, dato che il ristorante chiudeva alle due del mattino.

Ritrovandosi a camminare nel corridoio dove vedeva le stanze degli altri ricoverati, stava per uscire quando un lamento straziante proveniente dalla cella davanti alla sua, lo fece fermare. Una voce di giovane donna stava implorando aiuto.

Si avvicinò alla porta, che non aveva spioncino come le celle delle prigioni, e chiese cosa stava accadendo. La voce femminile rispose:

- Dove ci troviamo?

- In un istituto per malattie mentali. Mi chiamo James.

- Dorothy. Non ricordo nulla. Non so come mai sono qui e per quale motivo. Non può dirmelo? La prego…

- Non sono del personale, ne so quanto lei.

- Io non ho fatto niente… - la donna ricominciò a piagnucolare, protestando la propria innocenza.

- Senta, sono stato rinchiuso, come lei, in questo posto e le garantisco che neanch’io ho fatto un bel niente di male. Ora, se vuole, mi raggiunga. Esca da quella porta.

- È bloccata.

- Deve decidere di superarla. Con la mente. Si alzi e pensi di attraversarla.

- Sta scherzando?

- No, come crede che sia uscito, io?

- Si saranno dimenticati di chiudere la sua.

- Ora le faccio vedere…

James pensò di attraversare quella porta e raggiungere quella donna e in un attimo si ritrovò con lei, dentro una cella simile a quella che aveva appena abbandonato.

La donna poteva avere venticinque anni, bionda, minuta e con una bocca disegnata a cuore. Una bella ragazza che indossava una divisa del tutto simile alla sua.

- Ma… Come ha potuto? Come ha fatto?

Appariva sorpresa e persino spaventata. Lo guardava con gli occhi sbarrati.

- Devo confessarle una cosa, mi prometta di non piangere o tremare di spavento. Del resto, siamo nella stessa situazione.

Dorothy lo fissava in silenzio, in quella penombra. Nella cella non arrivava la luce della luna. La notte, tuttavia, non era del tutto oscura e i loro occhi potevano distinguere senza fatica le forme e i contorni degli oggetti. Gli occhi della ragazza brillavano.

- Mi sta spaventando già. Forse lei è un fantasma? – disse poi, tutto d’un fiato.

James ridacchiò piano.

- Ha quasi indovinato. Ma le ho detto che siamo nella stessa situazione.

- Cooosa? Mi prende in giro?

La ragazza si mise le mani sulla testa. Crollò a sedere in quella posa sul letto.

James capiva bene cosa stesse provando.

- Ma… ma se posso vederla, toccare gli oggetti, il mio corpo, come sarebbe possibile… La morte non può essere come la vita.

- Cosa pensava, di volare con gli angeli nella gloria eterna del Signore? Io stavo viaggiando con la mia automobile e un fulmine deve aver arrostito un grande albero che è piombato sulla mia vettura. Mi sono trovato all’esterno, a guardarmi dal margine della strada, mentre cadeva la pioggia. Da quel momento vedo solo persone che hanno perso la vita, come me. Il problema è che non tutti gli altri hanno capito di esser morti, non lo accettano.

- Io mi trovo qui, per quale motivo? Una specie di punizione? Non ricordo nulla.

- Può saperlo solo lei. L’ultima cosa che deve fare, è aver paura. La paura ci bloccava laggiù, ci blocca ora, oppure ci fa agire come stolti. Come vede, la morte è solo un viaggio, come fa l’acqua che può essere liquida, solida o vapore puro. Noi, ora, siamo vapore che può andare ovunque, oltre questa cella. Deve solo desiderarlo fortemente e accade come per magia. Così…

James, si ritrovò dunque oltre la porta chiusa della cella di Dorothy che lo raggiunse un attimo dopo. I defunti imparano molto presto, se non provano terrore.

La ragazza piangeva per la gioia.

- Non pensavo che morire fosse così piacevole. Mi sento benissimo.

- Sono felice per lei. Sappia che rischiamo di incontrare gente che vuole, fortemente, pensare di essere ancora laggiù, sulla Terra che abbiamo conosciuto. Ora, dovremo superare nello stesso modo questo portone sprangato.

I due compagni si ritrovarono nell’atrio principale della struttura, ancora silente. La notte, per definizione comune, doveva durare ancora qualche ora.

Dorothy, istintivamente, cercò e prese la mano del suo compagno.

- Mi permette? Mi pare di essere più tranquilla, così.

- Era sposata?

- Non ricordo nulla, gliel’ho detto. Ma non credo. C’è un modo per sapere quando siamo morti?

- Ne so quanto lei. Forse nei registri comunali è possibile reperire le notizie anagrafiche. Io sono morto da quasi un anno.

- Dovrebbero essere fogli elettronici. Io ricordo computer e stampanti. Forse lavoravo in un ufficio.

James e Dorothy, ormai esperti nell’arte della fuga, si ritrovarono ben presto al di fuori dell’istituto. La mattina era piacevolmente fresca e il sole stava per sorgere sul piccolo parco al di là del quale scorreva la strada statale.

La ragazza stampò un bacio sulla guancia di James.

- In qualche modo, lei mi ha ridato la vita. Da sola avevo solo paura.

- Forse, il nostro problema è proprio questo. Non siamo fatti per stare da soli.

 

Cliveberry era furioso, soprattutto con Andrew.

- Sei proprio sicuro di aver chiuso a chiave questa, dannata, cella?


Tratto dal Mistero del Libro dimenticato - ogni diritto riservato

sabato 24 dicembre 2022

Essere Morti - 1

 Essere Morti - 1

La dottoressa aveva uno strano modo di sorridere quando gli parlava, pensò James.

Quando, invece, parlava lui, l’espressione della psichiatra si modificava. Sembrava fissarlo con attenzione e ostentazione al centro della fronte o forse più in basso, verso il naso.

Nella stanza dell’istituto di cura faceva troppo caldo. I vestiti di cotone pesante che avevano consegnato al trentenne, in cambio dei jeans e del maglione che indossava al momento del ricovero, lo tediavano alquanto. Le ciabatte di gomma erano troppo grandi per i suoi piedi.

 Avrebbe voluto aprire la finestra dato che l’autunno del mondo esterno doveva e poteva risultare più fresco del clima artificiale di quel posto.

- Mi ripeta per quale motivo, cortesemente,  si ritiene già morto. – chiese la dottoressa dopo una pausa di qualche secondo. Non aveva smesso neppure per un istante di fissare la radice del suo naso.

James ridacchiò senza volerlo. Non per la domanda ma per la risposta che avrebbe dovuto esprimere. Era la sesta volta che la ripeteva, a sei diversi individui vestiti di bianco e con l’aria saccente, in quell’istituto.

- È l’ennesima volta, anche se la prima per lei.

- Infatti, è la prima volta che parliamo. Non se ne ricorda?

- Sì ma parlarne, con lei o con altri, non cambia di una virgola la mia posizione, la nostra posizione.

La dottoressa abbassò leggermente il mento, simulando un estremo tentativo di comprendere le parole dell’uomo.

- Quale posizione? Di cosa sta parlando?

- Siamo morti. – spiegò James – Non solo io, ma anche voi che mi state interrogando. Se potete vedermi, parlarmi, evidentemente siete già morti anche voi.

La psichiatra annotò quella risposta sul quaderno, pazientemente, fermandosi solo per correggere una parola. Non doveva dare la sensazione di giudicare il paziente mentre ne registrava le risposte. Quella funzione sarebbe stata svolta dal professor  Cliveberry, più tardi, prima di prescrivere le cure previste dal protocollo.

Quell’uomo, abbastanza giovane e dall’aspetto notevolmente robusto, aveva svolto vari mestieri prima di smettere di lavorare, un anno prima, esprimendo a congiunti e parenti la ragione che lo aveva convinto a ritirarsi dalla vita attiva: era deceduto durante un temporale.

Secondo la sua versione, un albero era stato abbattuto da un fulmine ed era caduto sulla sua automobile mentre passava per la strada centrale del paese.

Sulle prime, il trentenne si era sentito confuso, poi, realizzato di non essere più vivo,  aveva annunciato la propria dipartita a chi conosceva meglio: i figli, tornati dalla scuola, i genitori, e infine il datore di lavoro, proprietario dell’officina in Sunset Boulevard.

Si era chiuso in casa a meditare sulla nuova situazione finché  i servizi sociali, dopo aver affidato i due figlioli ai genitori di lui e al padre della moglie, si erano dovuti occupare anche della sua situazione oltre a cercare i bambini. Ben presto, erano stati sostituiti dai sanitari del centro di malattie mentali, ed era cominciato per James un percorso tra cliniche, medici, ospedali e residenze sanitarie.

Dopo un anno di quella trafila, era arrivato il ricovero all’istituto regionale.

- Sua moglie ha saputo del problema che sta raccontando a me? – chiese, all’improvviso, la dottoressa.

- Non ne ho idea. Lei non è qui. Penso sia viva e vegeta a casa sua, nel Vermont.

- Quindi, sua moglie è viva?

- Non lo so. Andò via, con quel suo amico, una sera di maggio. I ragazzi erano ancora piccoli. Trevor aveva tre anni e Anne appena sette mesi. Mi lasciò un biglietto di tre frasi sul tavolo della cucina. “Non ti amo” c’era scritto. Ho saputo, dalla madre, che è tornata nel Vermont con il suo amico d’infanzia. Si chiama Jim. Un tizio dai capelli rossi e l’aria idiota.

- Avete divorziato?

- Non ho voluto farlo. E’ la madre dei miei figli. Non posso divorziare da lei.

- Non ne ha chiesto l’affido? Parlo dei ragazzi.

- No. Credo che voglia avere figli da quel suo amico. Ma ormai la faccenda è chiusa.

- Come fa a definirla chiusa?

- Stiamo parlando di una vedova, no?

 

La dottoressa Kinsley uscì dalla stanza dei colloqui quasi subito. Gli aveva promesso che non avrebbe aspettato molto in quella sala climatizzata e quasi vuota, a parte un tavolo e due sedie di metallo.

Quel caso era troppo importante per il buon nome dell’istituto. James aveva probabilmente soppresso i figli per la disperazione di aver perduto la moglie e i medici avevano ricevuto il compito di fargli confessare il terribile delitto e soprattutto il luogo dove aveva seppellito i corpi.

A James sembrava tutto assurdo. Quella gente avrebbe dato di matto nell’esatto istante in cui avrebbe scoperto la verità. Aveva già visto una reazione del genere in alcune persone, incontrate dopo il suo decesso, nell’esatta copia del villaggio dove avevano vissuto e lavorato.

 Quando si accorgevano di essere morti, piangevano, si disperavano e generalmente correvano a casa a cercare notizie della moglie, del marito, dei figli o dei genitori. Non trovandoli da nessuna parte, prima o poi capivano. Del resto, gli apparecchi elettrici e elettronici non funzionavano ma loro continuavano a far finta che potessero utilizzarli perché, anche da trapassati, le abitudini sono davvero dure a morire.

Capiva benissimo che i medici lo ritenevano pazzo e pensavano anche che avesse soppresso i suoi, adorati, figlioli che invece, fortunatamente, erano vivi e vegeti.

A quel punto, sulla Terra, la madre avrebbe dovuto necessariamente pensare a loro. Del resto, se si trovavano lì con lui, anche i suoi genitori e il padre della sua vedova dovevano essere deceduti.

Probabilmente, il temporale che ricordava era stato uno dei momenti iniziali di un vero e proprio uragano che doveva aver ucciso varie persone. Tutta gente che non pensava di essere morta e quindi ragionava come se fosse in vita, con le stesse regole e applicando le medesime leggi del mondo che avevano dovuto lasciare. 

A James non importava poi molto di essere considerato uno svitato. Nella sua mente albergava solo la curiosità di conoscere quel nuovo mondo che somigliava molto, anche troppo, al vecchio.

Un infermiere entrò nella stanza. Aveva alcuni asciugamani sul braccio, quasi fosse un cameriere pronto a servire al tavolo.

Era alto come un armadio e leggermente obeso, calvo come una palla da biliardo ma sorrideva.

- Mi chiamo Andrew – gli disse prima di sollevarlo dalla sedia per le spalle come fosse un bambino.

James, che non era piccolo, si voltò per protestare ma l’infermiere lo bloccò prendendogli i muscoli dietro il collo con una mano sola.

- Non so cosa hai fatto ai tuoi figli, ma tu sai cosa ti farò io se non fai il bravo. – mormorò lentamente.

Fu così che James fu accompagnato in una stanza che sembrava una cella, preso dal colletto della sua giacca da ricoverato.

La sua stanza era la prima del corridoio del dormitorio, subito dopo il cancello metallico, sulla fila di destra. Sembravano le stanze di un brutto albergo di terza classe.

Nella stanza, vide un letto in perfetto ordine, un minuscolo comodino, un lavabo e un water.

- Quel che vedi è tutto quel che hai. – disse ancora Andrew mentre depositava gli asciugamani sul comodino – Il resto, devi meritartelo. Qui abbiamo una retribuzione a punti. Ogni giorno, puoi guadagnarne cento ma devi essere perfetto. Il che vuol dire: prendere le medicine senza protestare, mangiare ai pasti, e fare esattamente quel che ti viene detto da me e dal resto del personale. Vedrai i medici una volta al giorno e quello è il momento in cui non dovrai farmi vergognare di te.

L’infermiere gli diede una vigorosa pacca al centro delle spalle.

- Imparerai molto presto, lo so. Ho domato personcine molto ma molto più pericolose di te.

James ne era certo. E mentre l’infermiere chiudeva a chiave la sua stanza, pensò che l’Aldilà stava cominciando a sembrare un vero schifo.

La dottoressa Kinsley stava aspettando pazientemente che il famoso luminare della scienza medica, che era anche il suo principale, terminasse il rito propiziatorio che precedeva ogni riunione del personale medico e che consisteva nella lenta pulizia e nel caricare di poco tabacco la corta pipa che sarebbe comunque rimasta spenta.

Cliveberry non poteva fumare e voleva comunque averne la sensazione.

Gli altri due medici, il dottor Hackey e l’anziana dottoressa Pinby, gli vedevano compiere quel rito da almeno dieci anni e non ci facevano più caso. Erano seduti intorno al tavolo di metallo rettangolare, composti come scolaretti.

- Dottoressa Kinsley – disse il direttore dell’istituto appena ebbe infilato la pipa tra le labbra – Se non sbaglio, è con noi da quasi un anno.

- Per la verità, tredici mesi, professore.

- Sia pure. Non è la prima volta che le ripeto quanto sia importante la verità in questo istituto. I nostri pazienti sono tutti criminali probabilmente sani di mente. La maggior parte, simula per evitare la galera. Altri presentano effettivamente turbe e fobie tali da giustificare i loro crimini violenti almeno per la medicina se non per la legge. Legge che da noi si aspetta, molto spesso, anzi quasi sempre, una serie di risposte. Dico bene, dottoressa Pinby?

L’anziana specialista in medicina generale, sorrise, compiaciuta. Una leggera strizzatina inferta a quella vanitosa, giovane e bella collega, non le dispiaceva affatto.

- Parole sante, direttore.

- Bene. Quindi, certamente, cara dottoressa, è in grado di illuminarci sulla sorte dei due figlioli del nostro paziente. Dove li ha nascosti? Oppure: se li ha uccisi, dove sono i corpi?

La Kinsley aveva immaginato quella situazione ma non poteva farci nulla.

- Il signor Mc Phister non ha fornito alcuna spiegazione del suo gesto e non ha risposto alle mie domande. Ha ripetuto quel che leggiamo nel suo fascicolo.

Il direttore si tolse gli occhialetti tondi da miope per leggere i fogli che aveva davanti.

- Un uomo che ripete di essere un morto tra altri morti. A dire il vero, una sindrome di Cotard un po’ particolare.

L’altro medico, il pedante dottor Hackey, proveniente dal corpo dei medici militari della regione, ridacchiò leggermente, tossendo per l’imbarazzo.

- Una bella commedia. Ho letto bene quel fascicolo. E’ da un po’ che va avanti questa tiritera. Deve aver ucciso i figli, poi si è costruito in mente una realtà alternativa per nascondere a sé stesso quanto ha combinato. Senza ipnosi, non ne verremo fuori.

La dottoressa Pinby fece una smorfia:

- Purtroppo, sarebbe necessario il consenso del paziente.

La Kinsley le fu grata per quella sponda inaspettata:

- Vive nel suo mondo, non ha alcuna ragione per farsi ipnotizzare.

- Per una terapia elettroconvulsivante non avremo bisogno di alcun consenso. – dichiarò Cliveberry, soddisfatto – Siete tutti d’accordo, vero?

- Ma non…

La dottoressa Pinby si intromise subito per bloccare le proteste della giovane psichiatra:

 – Non tema, cara, troveremo il modo. Per esempio, un atto di ribellione violenta. Andrew è un mago in queste cose.

Il dottor Hackey inarcò le sopracciglia. Aveva l’aspetto di un ragazzo invecchiato precocemente. Il suo vestiario, sotto il camice immacolato, era un inappuntabile completo marrone impreziosito da un foulard multicolore e da braccialetti moderni ai polsi.

da Il Mistero del Libro Dimenticato - ogni diritto riservato.