Essere Morti - 1
La dottoressa aveva uno strano modo di sorridere quando gli parlava, pensò
James.
Quando, invece, parlava lui, l’espressione della psichiatra si modificava.
Sembrava fissarlo con attenzione e ostentazione al centro della fronte o forse
più in basso, verso il naso.
Nella stanza dell’istituto di cura faceva troppo caldo. I vestiti di cotone
pesante che avevano consegnato al trentenne, in cambio dei jeans e del maglione
che indossava al momento del ricovero, lo tediavano alquanto. Le ciabatte di
gomma erano troppo grandi per i suoi piedi.
Avrebbe voluto aprire la finestra
dato che l’autunno del mondo esterno doveva e poteva risultare più fresco del
clima artificiale di quel posto.
- Mi ripeta per quale motivo, cortesemente,
si ritiene già morto. – chiese la dottoressa dopo una pausa di qualche
secondo. Non aveva smesso neppure per un istante di fissare la radice del suo
naso.
James ridacchiò senza volerlo. Non per la domanda ma per la risposta che
avrebbe dovuto esprimere. Era la sesta volta che la ripeteva, a sei diversi
individui vestiti di bianco e con l’aria saccente, in quell’istituto.
- È l’ennesima volta, anche se la prima per lei.
- Infatti, è la prima volta che parliamo. Non se ne ricorda?
- Sì ma parlarne, con lei o con altri, non cambia di una virgola la mia
posizione, la nostra posizione.
La dottoressa abbassò leggermente il mento, simulando un estremo tentativo
di comprendere le parole dell’uomo.
- Quale posizione? Di cosa sta parlando?
- Siamo morti. – spiegò James – Non solo io, ma anche voi che mi state
interrogando. Se potete vedermi, parlarmi, evidentemente siete già morti anche
voi.
La psichiatra annotò quella risposta sul quaderno, pazientemente, fermandosi
solo per correggere una parola. Non doveva dare la sensazione di giudicare il
paziente mentre ne registrava le risposte. Quella funzione sarebbe stata svolta
dal professor Cliveberry, più tardi,
prima di prescrivere le cure previste dal protocollo.
Quell’uomo, abbastanza giovane e dall’aspetto notevolmente robusto, aveva
svolto vari mestieri prima di smettere di lavorare, un anno prima, esprimendo a
congiunti e parenti la ragione che lo aveva convinto a ritirarsi dalla vita
attiva: era deceduto durante un temporale.
Secondo la sua versione, un albero era stato abbattuto da un fulmine ed era
caduto sulla sua automobile mentre passava per la strada centrale del paese.
Sulle prime, il trentenne si era sentito confuso, poi, realizzato di non
essere più vivo, aveva annunciato la
propria dipartita a chi conosceva meglio: i figli, tornati dalla scuola, i
genitori, e infine il datore di lavoro, proprietario dell’officina in Sunset
Boulevard.
Si era chiuso in casa a meditare sulla nuova situazione finché i servizi sociali, dopo aver affidato i due
figlioli ai genitori di lui e al padre della moglie, si erano dovuti occupare
anche della sua situazione oltre a cercare i bambini. Ben presto, erano stati
sostituiti dai sanitari del centro di malattie mentali, ed era cominciato per
James un percorso tra cliniche, medici, ospedali e residenze sanitarie.
Dopo un anno di quella trafila, era arrivato il ricovero all’istituto
regionale.
- Sua moglie ha saputo del problema che sta raccontando a me? – chiese,
all’improvviso, la dottoressa.
- Non ne ho idea. Lei non è qui. Penso sia viva e vegeta a casa sua, nel
Vermont.
- Quindi, sua moglie è viva?
- Non lo so. Andò via, con quel suo amico, una sera di maggio. I ragazzi
erano ancora piccoli. Trevor aveva tre anni e Anne appena sette mesi. Mi lasciò
un biglietto di tre frasi sul tavolo della cucina. “Non ti amo” c’era scritto.
Ho saputo, dalla madre, che è tornata nel Vermont con il suo amico d’infanzia.
Si chiama Jim. Un tizio dai capelli rossi e l’aria idiota.
- Avete divorziato?
- Non ho voluto farlo. E’ la madre dei miei figli. Non posso divorziare da
lei.
- Non ne ha chiesto l’affido? Parlo dei ragazzi.
- No. Credo che voglia avere figli da quel suo amico. Ma ormai la faccenda
è chiusa.
- Come fa a definirla chiusa?
- Stiamo parlando di una vedova, no?
La dottoressa Kinsley uscì dalla stanza dei colloqui quasi subito. Gli
aveva promesso che non avrebbe aspettato molto in quella sala climatizzata e
quasi vuota, a parte un tavolo e due sedie di metallo.
Quel caso era troppo importante per il buon nome dell’istituto. James aveva
probabilmente soppresso i figli per la disperazione di aver perduto la moglie e
i medici avevano ricevuto il compito di fargli confessare il terribile delitto
e soprattutto il luogo dove aveva seppellito i corpi.
A James sembrava tutto assurdo. Quella gente avrebbe dato di matto
nell’esatto istante in cui avrebbe scoperto la verità. Aveva già visto una
reazione del genere in alcune persone, incontrate dopo il suo decesso,
nell’esatta copia del villaggio dove avevano vissuto e lavorato.
Quando si accorgevano di essere
morti, piangevano, si disperavano e generalmente correvano a casa a cercare
notizie della moglie, del marito, dei figli o dei genitori. Non trovandoli da
nessuna parte, prima o poi capivano. Del resto, gli apparecchi elettrici e
elettronici non funzionavano ma loro continuavano a far finta che potessero
utilizzarli perché, anche da trapassati, le abitudini sono davvero dure a
morire.
Capiva benissimo che i medici lo ritenevano pazzo e pensavano anche che
avesse soppresso i suoi, adorati, figlioli che invece, fortunatamente, erano
vivi e vegeti.
A quel punto, sulla Terra, la madre avrebbe dovuto necessariamente pensare
a loro. Del resto, se si trovavano lì con lui, anche i suoi genitori e il padre
della sua vedova dovevano essere deceduti.
Probabilmente, il temporale che ricordava era stato uno dei momenti
iniziali di un vero e proprio uragano che doveva aver ucciso varie persone.
Tutta gente che non pensava di essere morta e quindi ragionava come se fosse in
vita, con le stesse regole e applicando le medesime leggi del mondo che avevano
dovuto lasciare.
A James non importava poi molto di essere considerato uno svitato. Nella
sua mente albergava solo la curiosità di conoscere quel nuovo mondo che
somigliava molto, anche troppo, al vecchio.
Un infermiere entrò nella stanza. Aveva alcuni asciugamani sul braccio,
quasi fosse un cameriere pronto a servire al tavolo.
Era alto come un armadio e leggermente obeso, calvo come una palla da
biliardo ma sorrideva.
- Mi chiamo Andrew – gli disse prima di sollevarlo dalla sedia per le
spalle come fosse un bambino.
James, che non era piccolo, si voltò per protestare ma l’infermiere lo
bloccò prendendogli i muscoli dietro il collo con una mano sola.
- Non so cosa hai fatto ai tuoi figli, ma tu sai cosa ti farò io se non fai
il bravo. – mormorò lentamente.
Fu così che James fu accompagnato in una stanza che sembrava una cella,
preso dal colletto della sua giacca da ricoverato.
La sua stanza era la prima del corridoio del dormitorio, subito dopo il
cancello metallico, sulla fila di destra. Sembravano le stanze di un brutto
albergo di terza classe.
Nella stanza, vide un letto in perfetto ordine, un minuscolo comodino, un
lavabo e un water.
- Quel che vedi è tutto quel che hai. – disse ancora Andrew mentre
depositava gli asciugamani sul comodino – Il resto, devi meritartelo. Qui
abbiamo una retribuzione a punti. Ogni giorno, puoi guadagnarne cento ma devi
essere perfetto. Il che vuol dire: prendere le medicine senza protestare,
mangiare ai pasti, e fare esattamente quel che ti viene detto da me e dal resto
del personale. Vedrai i medici una volta al giorno e quello è il momento in cui
non dovrai farmi vergognare di te.
L’infermiere gli diede una vigorosa pacca al centro delle spalle.
- Imparerai molto presto, lo so. Ho domato personcine molto ma molto più
pericolose di te.
James ne era certo. E mentre l’infermiere chiudeva a chiave la sua stanza,
pensò che l’Aldilà stava cominciando a sembrare un vero schifo.
La dottoressa Kinsley stava aspettando pazientemente che il famoso luminare
della scienza medica, che era anche il suo principale, terminasse il rito
propiziatorio che precedeva ogni riunione del personale medico e che consisteva
nella lenta pulizia e nel caricare di poco tabacco la corta pipa che sarebbe
comunque rimasta spenta.
Cliveberry non poteva fumare e voleva comunque averne la sensazione.
Gli altri due medici, il dottor Hackey e l’anziana dottoressa Pinby, gli
vedevano compiere quel rito da almeno dieci anni e non ci facevano più caso.
Erano seduti intorno al tavolo di metallo rettangolare, composti come
scolaretti.
- Dottoressa Kinsley – disse il direttore dell’istituto appena ebbe
infilato la pipa tra le labbra – Se non sbaglio, è con noi da quasi un anno.
- Per la verità, tredici mesi, professore.
- Sia pure. Non è la prima volta che le ripeto quanto sia importante la
verità in questo istituto. I nostri pazienti sono tutti criminali probabilmente
sani di mente. La maggior parte, simula per evitare la galera. Altri presentano
effettivamente turbe e fobie tali da giustificare i loro crimini violenti
almeno per la medicina se non per la legge. Legge che da noi si aspetta, molto
spesso, anzi quasi sempre, una serie di risposte. Dico bene, dottoressa Pinby?
L’anziana specialista in medicina generale, sorrise, compiaciuta. Una
leggera strizzatina inferta a quella vanitosa, giovane e bella collega, non le
dispiaceva affatto.
- Parole sante, direttore.
- Bene. Quindi, certamente, cara dottoressa, è in grado di illuminarci
sulla sorte dei due figlioli del nostro paziente. Dove li ha nascosti? Oppure:
se li ha uccisi, dove sono i corpi?
La Kinsley aveva immaginato quella situazione ma non poteva farci nulla.
- Il signor Mc Phister non ha fornito alcuna spiegazione del suo gesto e
non ha risposto alle mie domande. Ha ripetuto quel che leggiamo nel suo
fascicolo.
Il direttore si tolse gli occhialetti tondi da miope per leggere i fogli
che aveva davanti.
- Un uomo che ripete di essere un morto tra altri morti. A dire il vero,
una sindrome di Cotard un po’ particolare.
L’altro medico, il pedante dottor Hackey, proveniente dal corpo dei medici
militari della regione, ridacchiò leggermente, tossendo per l’imbarazzo.
- Una bella commedia. Ho letto bene quel fascicolo. E’ da un po’ che va
avanti questa tiritera. Deve aver ucciso i figli, poi si è costruito in mente
una realtà alternativa per nascondere a sé stesso quanto ha combinato. Senza
ipnosi, non ne verremo fuori.
La dottoressa Pinby fece una smorfia:
- Purtroppo, sarebbe necessario il consenso del paziente.
La Kinsley le fu grata per quella sponda inaspettata:
- Vive nel suo mondo, non ha alcuna ragione per farsi ipnotizzare.
- Per una
terapia elettroconvulsivante non avremo bisogno di alcun consenso. – dichiarò Cliveberry, soddisfatto –
Siete tutti d’accordo, vero?
- Ma non…
La dottoressa
Pinby si intromise subito per bloccare le proteste della giovane psichiatra:
– Non tema, cara, troveremo il modo. Per
esempio, un atto di ribellione violenta. Andrew è un mago in queste cose.
Il dottor Hackey
inarcò le sopracciglia. Aveva l’aspetto di un ragazzo invecchiato precocemente.
Il suo vestiario, sotto il camice immacolato, era un inappuntabile completo
marrone impreziosito da un foulard multicolore e da braccialetti moderni ai
polsi.
da Il Mistero del Libro Dimenticato - ogni diritto riservato.
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