Come vi raccontavo nel post precedente, i tremebondi e perennemente incerti editori italiani evitano di fornirvi a disposizione nelle librerie raccolte come questa. Devo invece ricordare che la raccolta precedente, intitolata La Notte Comune e altri racconti fu un successo purtroppo limitato ad alcune librerie di Roma, nel lontano 1998, edita da Teseo Editore.
L'allora esistente Libreria Rizzoli, sita in Largo Chigi, ordinò varie volte il libro che ottenne alcune recensioni positive. Ovviamente, sembra quasi inutile ribadirlo, nel più completo disinteresse dell'editoria nazionale, sensibile, a quanto pare, più ai contributi statali e quindi alle raccomandazioni provenienti da quel mondo che alla qualità letteraria.
Ci rimettete voi lettori, che trovate soltanto roba di poca importanza spacciata per letteratura del settore. Come nel mondo della musica, nel mondo del cinema e affini, in Italia-Draghistan pubblica in formato cartaceo solo chi è fortemente raccomandato dal mondo dei potenti. Ecco per quale motivo una raccolta come questa, contenente opere del tutto introvabili ai nostri tempi, non la leggerete forse mai, non trovandola in libreria e nemmeno in edicola.
Devo anche ammettere che non accetterei mai un contratto al ribasso da un editore di piccola o media levatura. Una raccolta come I RACCONTI DELLA NUOVA LUNA merita una pubblicazione di prestigio e la distribuzione a livello nazionale. Ancora una volta, ci rimetterete voi Lettori ma io non posso farci niente. Di seguito un estratto dal racconto Essere Morti.
La
dottoressa aveva uno strano modo di sorridere quando gli parlava, pensò James.
Quando,
invece, parlava lui, l’espressione della psichiatra si modificava. Sembrava
fissarlo con attenzione e ostentazione al centro della fronte o forse più in
basso, verso il naso ma a lui non dava fastidio. Anzi, quella donna gli
piaceva.
Nella
stanza dell’istituto di cura faceva troppo caldo. I vestiti di cotone pesante
che avevano consegnato al trentenne, in cambio dei jeans e del maglione che
indossava al momento del ricovero, lo tediavano alquanto. Le ciabatte di gomma
erano troppo grandi per i suoi piedi.
Avrebbe voluto aprire la finestra dato che
l’autunno del mondo esterno doveva e poteva risultare più fresco del clima
artificiale di quel posto.
-
Mi ripeta per quale motivo, cortesemente, si ritiene già morto. – chiese la
dottoressa dopo una pausa di qualche secondo. Non aveva smesso neppure per un
istante di fissare la radice del suo naso.
James
ridacchiò senza volerlo. Non per la domanda ma per la risposta che avrebbe
dovuto esprimere. Era la sesta volta che la ripeteva, a sei diversi individui
vestiti di bianco e con l’aria saccente, in quell’istituto.
-
È l’ennesima volta, anche se la prima per lei, che ne parlo.
-
Infatti, è la prima volta che parliamo. Non se ne ricorda?
-
Sì, ma parlarne, con lei o con altri, non cambia di una virgola la mia
posizione, la nostra posizione.
La
dottoressa abbassò leggermente il mento, simulando un estremo tentativo di
comprendere le parole dell’uomo.
-
Quale posizione? Di cosa sta parlando?
-
Siamo morti. – spiegò James – Non solo io, ma anche voi che mi state
interrogando. Se potete vedermi, parlarmi, evidentemente siete già morti anche
voi.
La
psichiatra annotò quella risposta sul quaderno, pazientemente, fermandosi solo
per correggere una parola. Non doveva dare la sensazione di giudicare il
paziente mentre ne registrava le risposte. Quella funzione sarebbe stata svolta
dal professor Cliveberry, più tardi, prima di prescrivere le cure previste dal
protocollo.
Quell’uomo,
abbastanza giovane e dall’aspetto notevolmente robusto, aveva svolto vari
mestieri prima di smettere di lavorare, un mese prima, esprimendo a congiunti e
parenti la ragione che lo aveva convinto a ritirarsi dalla vita attiva: era
deceduto durante un temporale.
Secondo
la sua versione, un albero era stato abbattuto da un fulmine ed era caduto
sulla sua automobile mentre passava per la strada centrale del paese.
Sulle
prime, il trentenne si era sentito confuso, poi, realizzando di non essere più
vivo, aveva annunciato la propria dipartita a chi conosceva meglio: i figli,
tornati dalla scuola, i genitori, e infine il datore di lavoro, proprietario
dell’officina in Sunset Boulevard.
Si
era chiuso in casa a meditare sulla nuova situazione finché i servizi sociali,
dopo aver affidato i due figlioli ai genitori di lui e al padre della moglie,
si erano dovuti occupare anche della sua situazione oltre a cercare i bambini.
Ben presto, erano stati sostituiti dai sanitari del centro di malattie mentali,
ed era cominciato per James un percorso tra cliniche, medici, ospedali e
residenze sanitarie.
Dopo
venti giorni di quella trafila, era arrivato il ricovero nell’istituto
regionale.
-
Sua moglie ha saputo del problema che sta raccontando a me? – chiese,
all’improvviso, la dottoressa.
-
Non ne ho idea. Lei non è qui. Penso sia viva e vegeta a casa sua, nel Vermont.
-
Quindi, sua moglie è viva?
-
Non lo so. Andò via, con quel suo amico, una sera di maggio. I ragazzi erano
ancora piccoli. Trevor aveva tre anni e Anne appena sette mesi. Mi lasciò un
biglietto di tre parole sul tavolo della cucina. “Non ti amo” c’era scritto. Ho
saputo, dalla madre, che è tornata nel Vermont con il suo amico d’infanzia. Si
chiama Jim. Un tizio dai capelli rossi e l’aria idiota.
-
Avete divorziato?
-
Non ho voluto farlo. È la madre dei miei figli. Non posso divorziare da lei.
-
Non ne ha chiesto l’affido? Parlo dei ragazzi.
-
No. Credo che voglia avere figli da quel suo amico. Ma ormai la faccenda è
chiusa.
-
Come fa a definirla chiusa?
-
Stiamo parlando di una vedova, no?
La
dottoressa Kinsley uscì dalla stanza dei colloqui quasi subito. Gli aveva
promesso che non avrebbe aspettato molto in quella sala climatizzata e quasi
vuota, a parte un tavolo e due sedie di metallo.
Quel
caso era troppo importante per il buon nome dell’istituto. James aveva
probabilmente soppresso i figli per la disperazione di aver perduto la moglie e
i medici avevano ricevuto il compito di fargli confessare il terribile delitto
e soprattutto il luogo dove aveva seppellito i corpi.
A
James sembrava tutto assurdo. Quella gente avrebbe dato di matto nell’esatto
istante in cui avrebbe scoperto la verità. Aveva già visto una reazione del
genere in alcune persone, incontrate dopo il suo decesso, nell’esatta copia del
villaggio dove avevano vissuto e lavorato.
Quando si accorgevano di essere morti,
piangevano, si disperavano e generalmente correvano a casa a cercare notizie
della moglie, del marito, dei figli o dei genitori. Non trovandoli da nessuna
parte, prima o poi capivano. Del resto, gli apparecchi elettrici e elettronici
non funzionavano ma loro continuavano a far finta che potessero utilizzarli
perché, anche da trapassati, le abitudini sono davvero dure a morire.
Capiva
benissimo che i medici lo ritenevano pazzo e pensavano anche che avesse
soppresso i suoi, adorati, figlioli che invece, fortunatamente, erano vivi e
vegeti.
A
quel punto, sulla Terra, la madre avrebbe dovuto necessariamente pensare a
loro. Del resto, se si fossero trovati lì con lui, anche i suoi genitori e il
padre della sua vedova avrebbero dovuto essere deceduti.
Probabilmente,
il temporale che ricordava era stato uno dei momenti iniziali di un vero e
proprio uragano che doveva aver ucciso varie persone. Tutta gente che non
pensava di essere morta e quindi ragionava come se fosse in vita, con le stesse
regole e applicando le medesime leggi del mondo che avevano dovuto
lasciare.
brano estratto dal racconto Essere Morti.
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