domenica 22 settembre 2024

LA DONNA CHE NON C'ERA - piccolo estratto

 Vi propongo oggi un piccolo estratto dal romanzo giallo-fantastico LA DONNA CHE NON C'ERA. Se conoscete qualche editore, specialmente uno di quelli che monopolizzano gli spazi e gli scaffali delle librerie italiane, potete ringraziarlo se questo romanzo non lo leggerete mai. 

Gli editori italiani di un certo tipo sono troppo occupati a pubblicare incapaci o raccomandati per proporre, al contrario, gialli come questo. Buona lettura comunque.

Uno smeraldo in un pugno di zaffiri: così l’aveva definita qualcuno, un personaggio che non riuscivo a rammentare. In effetti, l’Isola Verde confermava in pieno il suo nome. La costa che avevo potuto vedere, e quindi la spiaggia orientale, era contornata da una foltissima vegetazione che inghiottiva la sabbia, quasi che fosse la cura per il male che produceva accarezzare l’Oceano. La terra che reclamava il suo diritto di esistere.

Cento metri più in avanti, l’acqua oceanica più meravigliosamente splendente che avessi mai incontrato. Mi era venuto in mente che tutto quello splendore non poteva essere naturale: sembrava invece che milioni di pietre preziose depositate sul fondale fossero esaltate dal sole subtropicale. 

L’aria era tersa ma molto più fresca di quanto mi sarei aspettato, quando fui tratto a bordo per mezzo di un canotto e portato a terra per mezzo di una sorta di barella, con il mondo che mi era ancora rimasto sullo stomaco. 

Avevo sentito dire, in spagnolo, che ero stato molto fortunato a salvarmi dal naufragio dell’elicottero. E se lo dicevano i miei salvatori, potevo anche credergli.

Altre imbarcazioni stavano seguendo noi. Dall’Ulisse, dovevano trasportare a terra provviste, viveri e materiale scientifico destinato alla base strategica, come la chiamavano i marinai che mi avevano trovato mezzo morto, galleggiare nell’acqua ormai quasi ferma.

Vidi, in lontananza, vicino un piccolo faro, due uomini in divisa militare. Ma dopo un minuto circa dal momento in cui avevo posato i piedi sulla sabbia fine, ebbi un altro attacco, e il mondo vacillò fino a rivoltarsi sottosopra.

Dopo un secolo o un secondo, riaprii gli occhi proprio su una parete, alla mia sinistra. Era di legno? No, era semplicemente rivestita da pannelli di un bel legno scuro, che conferivano alla baracca un aspetto caldo e confortevole. Ero steso sul dorso ma avevo la necessità di capire dov’ero finito e con qualche sforzo, mi costrinsi a sedere su quella brandina. In effetti, non ero solo.

Roteando gli occhi, con il collo che mi faceva male, vidi una ventina di persone; chi seduto su sedioline di bambù, chi in piedi, immobili e assolutamente muti; in quella stanza neanche troppo vasta, mi davano la scomoda sensazione di togliermi l’aria. I loro occhi me li sentivo addosso quasi che lo sguardo potesse toccarmi.

«Si è ripreso…» sentii pronunciare da una voce vellutata che mi sembrò fosse quella di una ragazza di colore, in piedi accanto alla brandina. Aveva un bel viso tondo, più che altro connotato da lineamenti tipici delle popolazioni africane, e due grandi occhi neri molto espressivi. Parlava in spagnolo ma pareva originaria del mondo anglosassone.

Fui costretto a socchiudere le palpebre che si erano fatte pesanti come macigni. La voce vellutata arrivò ancora alle mie orecchie ma vedevo solo il buio, poi annegai in un mare di tepore soffocante.

Sognai, o forse no, strane grida, suoni non distinguibili, sussurri provenire da regioni remote; avevo gli occhi chiusi ma pensai che, se non già notte, doveva comunque aver fatto buio. Solo di notte, la giungla sub tropicale si agita in quel modo. Non c’ero mai stato, in ambienti come quelli che proponeva l’Isola Verde, eppure lo sapevo bene.

Un tranquillo uomo di città, immerso in un ecosistema che non dovrebbe conoscere, che faticava ad ambientarsi.

Potevo muovermi, e allora cercai di alzarmi, ricadendo a sedere. Ci riprovai, più lentamente, e stavolta riuscii a riconquistare la postura eretta. Ero preda di un tremendo torpore mentale ma soprattutto fisico. Forse mi avevano narcotizzato? O si trattava semplicemente degli effetti del naufragio?

Dopo qualche passo incerto, una luce terribile invase il mio spazio visivo, costringendomi a proteggere gli occhi con la mano destra. Avevo percepito passi lievi sulle assi di legno e sentii subito dopo una mano fresca sulla mia fronte. Parole appena sussurrate, nel solito spagnolo in stile anglofono, da una giovane femmina.

«È riuscito a mettersi in piedi… Come si sente?»

Disse ancora qualcosa ma il mondo non voleva stare dritto, c’era poco da fare.

Avrei voluto restare con lei, capire quel che mi stava dicendo. Realizzai invece che provenivo dal buio e mi stavo dissolvendo nel nulla. Non era la luce, la verità risiedeva nel buio.

 

Dieci stringhe di luce perforavano la stanza. Ero certo di non aver sognato.

Mi sentivo un umo nuovo, e mi alzai subito in piedi, dopo aver riconosciuto la stanza e la solita branda.

Mi accorsi di essere vestito da una camicia di lino e pantaloni leggeri, tipo jeans. Infilai i piedi nelle scarpe di tela che vidi accanto al letto e andai a spalancare le imposte di legno. Luce a aria profumata di fiori tropicali e salsedine invase la stanza.

Aspirai con voluttà quei profumi. Mi sentivo finalmente benissimo e avevo un gran appetito.

«Che dormiglione!» sentii dire, stavolta, in inglese, dalla solita voce femminile.

Mi voltai verso la porta di quell’ambiente largo non più di sedici metri quadrati, focalizzando lo sguardo sulla ragazza di colore, forse meticcia, che già conoscevo.

Lunghi capelli corvini, grandi occhi neri e una voce gioviale. Poteva avere una trentina d’anni, slanciata ma non alta e mi tendeva la mano che strinsi. Era proprio fresca e soave come la ricordavo, sulla mia fronte.

Mi colpì la sua divisa, praticamente di tipo militare ma che non seppi associarla all’esercito di alcun paese.

«Sheyla Hansen, caporale medico degli Stati Uniti.» si presentò, sorridendo «E lei si chiama Tau, vero?»

Le risposi in inglese:

«Mi pare di sì…Non avete ritrovato i miei documenti, vero?»

«Infatti, non li abbiamo ritrovati. Ma sussurrava il suo nome mentre dormiva, forse sognando. Tau è un nome italiano o greco?»

Non lo ricordavo. Non ricordavo quasi niente di me e del motivo della mia permanenza in quel luogo. La mia mente era un oceano calmo di acque quasi ferme.

La ragazza notò il mio imbarazzo e sorrise di nuovo:

«Oh, non si preoccupi! Ricorderà presto. Abbiamo recuperato qualche altro naufrago, su queste spiagge, in passato. Per ora, lei è mister Tau e tanto basta.»

«Già… Mi ha riportato a riva un equipaggio dell’Ulisse, vero?»

«E’ la nave che assicura all’isola rifornimenti costanti, una volta ogni due settimane. Ma ora, lei ha bisogno di mangiare. A più tardi, con le successive spiegazioni.»

Aveva il classico fare risoluto di una dottoressa o di un’infermiera esperta.

Mi prese per mano e mi portò fuori da quella stanza, praticamente una sorta di infermeria, e dopo aver attraversato un ambiente caratterizzato da armadietti pieni di scatole e barattoli, che avevano tutta l’aria di essere medicine, entrammo in un vasto locale arredato con mobili in bambù e suppellettili squisitamente artigianali, quasi tutte in legno di vimine. Vidi anche qualche elemento di legno scuro soprattutto librerie basse e zeppe di libri ben ordinati, con le copertine in inglese. Sopra di queste, erano appesi alle pareti di quella stanza, piatti variopinti e alcune maschere indigene coloratissime.

La mia attenzione fu comunque catturata da una tavola di bambù, riccamente apparecchiata, al centro della stanza.

«Spero apprezzerà la mia cucina: sono ventisette ore che beve solo l’acqua che sono riuscita a infilarle in bocca…»

Non mi feci pregare e mi sedetti a quella tavola per gustare il ben di dio che vedevo tra frutti tropicali, una sorta di pane fritto nell’olio di palma, e dolci ricoperti di cocco, lasciando da parte il vassoio di pesce arrostito posato sulle solite foglie di palma.

Sheyla era seduta accanto a me, sorvegliando la mia voglia di nutrirmi.

«Il pesce è fresco, pescato stamattina e arrostito da me…»

«Non ne dubito, ma non riesco a mangiarlo. Questa frutta, però, è deliziosa.»

«Non ricorda molto di sé stesso, vero? Ma non s’ impressioni, è lo shock. Mangi pure quel che riesce a deglutire.»

«Non ricordo molto… di nulla. Ma devo ringraziarla per le sue attenzioni. Sto parlando con una dottoressa in medicina?»

«Da poco. Ho completato l’abilitazione e sono venuta qui, secondo l’offerta che ho accettato anni fa. In fondo, la paga era buona per restare ventiquattro mesi a disposizione della guarnigione statunitense. Non me ne sono più andata.»

estratto dal romanzo LA DONNA CHE NON C'ERA


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